Si può pensare allora che la frase sulle nozze possa essere stata dettata da motivi politici: accentuare il contrasto con l’Udc e attirare i militanti Pd più a sinistra.
«Non è così e l’ho spiegato nel confronto con Rosi Bindi a Reggio: ho subìto come un’umiliazione la discussione attorno ai Pacs e ai Dico (per regolare le unioni omosessuali, ndr). Un dibattito sugli acronimi che serviva a stendere un velo su parole scabrose come gay o lesbiche. Come regolamentare un oggetto senza nominarlo. In quei giorni mi è tornata a galla quella constatazione di Oscar Wilde per superare la quale ho costruito una vita: l’omosessualità è l’amore che non osa pronunciare il proprio nome».
Torniamo alla politica.
«Appunto. È da quando ho messo in piedi Sel che parlo di questo. Da due anni vi dedico un’attenzione costante, compresi i miei discorsi nel tour chiamato “Comizi d’amore” (una citazione da un film di Pasolini). Io lavoro sul vocabolario: la sinistra ha perso le sue parole ed è sconfitta; la destra impone il suo vocabolario e vince».
Dunque?
«Sono maturi i tempi per uno statuto dei diritti dell’individuo, per l’emersione di nuove soggettività che chiedono di raccontarsi alla luce del sole. E ciò ha molto a che vedere con la politica, quando questa non si limita ad occupare solo spazi mediatici e di potere. Il realismo ci ha reso minimalisti sul terreno dei diritti civili, ci ha portato a consolidare una condizione di arretratezza. Avendo chiesto poco, non abbiamo ottenuto nulla, neppure una legge contro l’omofobia. Nel mondo anglo-americano è diverso».
Ovvero?
«Il democratico americano Obama e il conservatore inglese Cameron si trovano d’accordo sul matrimonio gay. Allora penso che non si può continuare a percepire l’arretratezza italiana come un dato immodificabile. I miei diritti non possono essere il frutto di un bilancino, di una mediazione al ribasso. Del resto, l’agenda del cambiamento che il centrosinistra vuole costruire non può che mettere al centro della discussione l’evoluzione dei diritti sociali e di libertà. Penso alla legge 30 sul lavoro, alla fecondazione assistita, al fine vita e alla regolazione delle coppie di fatto: temi maturi per la società italiana».
Lei pone la questione oltre che allo Stato, anche alla Chiesa. Ne ha parlato con i vertici della gerarchia?
«In passato agli anatemi della gerarchia, il movimento gay ha replicato con un anticlericalismo di maniera o una bestemmia liberatoria. Non voglio andare in contrapposizione, né voglio impedire a nessun livello della Chiesa di esprimersi. Vorrei, però, una discussione capace di bruciare l’erba cattiva dei luoghi comuni e più evangelicamente capace di accogliere le persone nella loro diversità. Mi ha detto un uomo di Chiesa: prego Dio affinché la purezza dei nostri princìpi non divenga la corda con cui impicchiamo le concrete esistenze».
Lei invoca parità, ma anche la legge pugliese sul welfare (del 2006) concede una posizione di primato alla famiglia prevista dalla Costituzione.
«Non potevamo mica fare una legge sul diritto di famiglia, né proporre una modifica costituzionale: non sono materie che competono alle Regioni. Ci siamo limitati a riconoscere servizi sociali senza discriminazioni tra i fruitori. Stiamo parlando, tuttavia, di un evo fa. E anche in quel caso mi sono fatto carico delle paure e delle esigenze della Chiesa. Ma come dice una canzone di Leo Ferré “il tempo va”. E il tempo dei diritti non può essere indefinitamente dilazionato. Perché se uno ragiona di sé, non può immaginare di aspettare ancora 20 o 30 anni».
Francesco Strippoli
fonte: Corriere del Mezzogiorno
intervista riportata sul Sito nazionale di SEL
Nessun commento:
Posta un commento